Con due risposte consecutive del 21 giugno 2024 il servizio di supporto giuridico del MIT, previsto dal comma 10 dell’art. 223 del codice dei contratti pubblici, ha affrontato la questione della rilevanza, ai fini del calcolo dell’importo stimato dell’appalto ai sensi e per gli effetti dell’art. 14 del medesimo codice, delle varianti comprese nel cosiddetto quinto d’obbligo, ossia entro il limite di variabilità intrinseca dell’importo del contratto di appalto, secondo lo schema degli artt. 1660 e 1661 c.c.

Come è noto con il d.lgs. n.36/2023 il “quinto d’obbligo” ha subito una radicale riforma, perché, da diritto potestativo del committente immanente a tutti i contratti di appalto – ferma restando la necessità di verificare la sussistenza dei presupposti “amministrativi” di legittimità delle varianti indicati dai commi 1, 2 e 3 dell’art. 120 – – è stato trasformato in una facoltà esercitabile solo se espressamente prevista nei documenti di gara. Tanto vero è che il bando tipo n. 1 dell’ANAC, relativo alle procedure aperte per l’affidamento di contratti pubblici di servizi e forniture nei settori ordinari di importo superiore alle soglie europee, riconduce il quinto d’obbligo alle modifiche ex articolo 120 comma 1 lettera a) e la considera quale opzione a sé stante di modifica del contratto, con conseguente conteggio del relativo importo ai fini del calcolo del valore dell’appalto e delle conseguenze in termini di regime applicabile. Tale scelta interpretativa è stata motivata, nella relazione illustrativa del bando tipo, facendo rinvio alla relazione allegata al d.lgs. n. 36/2023, ove si evidenzia che l’indicazione del quinto d’obbligo sin nei documenti di gara iniziali è stata introdotta dal Legislatore per rendere la previsione compatibile con le fattispecie di modifica del contratto originario consentite dalla direttiva.

Nel prendere atto di tale opzione interpretativa, non può farsi a meno di rimarcare che il “quinto d’obbligo”, in realtà, non rappresenta una specifica tipologia di variante, alla stessa stregua di quelle indicate dai primi tre commi dell’art. 120, ma si colloca sul diverso piano del rapporto contrattuale con l’impresa e consente al committente, qualora sussistano i presupposti di legittimità della variante previsti dai citati primi tre commi, di pretendere che l’appaltatore si assoggetti, per le maggiori lavorazioni comprese entro il detto limite del quinto d’obbligo, agli stessi prezzi, patti e condizioni; dovendo invece, oltre il detto limite, rinegoziare nuovi prezzi, patti e condizioni.

Avendo perso di vista tale fondamentale differenza tra le specifiche ipotesi di varianti consentite dall’ordinamento pubblicistico e un istituto di matrice squisitamente privatistica, da un lato si corre il rischio di circoscrivere le varianti convenzionali di cui al comma 1, lett. a) dell’art. 120 entro il limite del 20% del contratto iniziale, quando invece le stesse varianti convenzionali si caratterizzano proprio per non incorrere in limiti legalmente predefiniti, e, dall’altro, si ottiene il risultato di abbassare, di fatto, tutte le soglie e sottosoglie previste dal codice, perché nel calcolo del valore iniziale del contratto va compresa la maggiorazione del quinto, anche quando sia estremamente improbabile che la stazione appaltante vi debba fare ricorso. A meno di evitare di inserire in contratto la clausola del “quinto d’obbligo”, così da non dover applicare alcuna maggiorazione nel calcolo del valore presunto dell’appalto, ma correndo al contempo il rischio di rimanere esposti alle richieste di rinegoziazione dell’appaltatore per tutte indistintamente le varianti, anche se di modesto importo e di altrettanto modesta incidenza percentuale.